freccettina Newsletter
freccettina Ricerca

freccettina tutti gli appuntamenti di vag

Sabato 9 Gennaio 2010, dalle ore 16 a Vag 61, BCL propone una giornata di studi

Decrescita o de-civilizzazione: una strategia di resistenza sociale per il decennio che viene

la crisi Dieci anni dopo la rivolta di Seattle contro le corporazioni globali, e venti anni dopo il crollo del muro di Berlino, Il summit di Copenhagen ha seppellito l’illusione che una forma di vita civile e umana possa convivere col capitalismo. Riuscirà la collettività a liberarsi dei dogmi mortali del neoliberismo? Riuscirà la mente collettiva a liberarsi dal dominio assoluto dei media? Riuscirà il lavoro a trovare una strada verso la ricomposizione cosciente e solidale?

Il 30 Novembre 1999 a Seattle decine di migliaia di persone scesero in strada per bloccare lo svolgimento del summit del World Trade Organization. Era l'inizio di un movimento che per alcuni anni riuscì a mettere in crisi l'ideologia neoliberista che era apparsa incontrastabili fino a quel momento. Ma quel movimento non riuscì ad andare oltre la manifestazione etica e la critica ideologica, né riuscì a trasfrormarsi in pratica quotidiana di solidarietà sociale.
Poi la scena cambiò drammaticamente tra il 2001 e il 2003.
La guerra divenne forma generale delle relazioni umane: definita da Bush guerra infinita condizionando la sfera geopolitica come la sfera sociale, quella interetnica e quella sessuale.
La vittoria di Barack Obama, nove anni dopo Seattle, sembrò aprire spiragli di speranza. Ma in questo anno abbiamo assistito all'impotenza della sua ragionevolezza. L'uomo più potente della terra sembra impotente di fronte ai dispositivi automatici della finanza, di fronte all'ignoranza di massa mediaticamente prodotta, di fronte al groviglio inestricabile di odio che la guerra di Bush ha provocato, e soprattutto di fronte agli effetti della devastazione ambientale.
A Copenhagen si è rivelata la ragione profonda che impedisce ogni decisione sulla questione globale del cambiamento climatico. La divisione tra paesi di lunga industrializzazione e resto del mondo è apparsa insuperabile perché è centrata sul problema del debito.
I paesi che hanno subito secoli di colonizzazione e che non hanno sviluppato un sistema industriale - e quindi non hanno contribuito alla devastazione ambientale, pongono un problema preliminare: il problema della restituzione del debito che l'occidente ha contratto nei confronti del mondo intero.
A Copenhagen è stata respinta una ipotesi di governo occidentale sulla questione climatica, perciò molticonsiderano quel vertice un fallimento. Ma da un altro punto di vista si può dire che il vertice di Copenhagen ha finalmente posto il problema della redistribuzione mondiale delle risorse. Il mondo povero sta usando la questione climatica conme un'arma puntata contro il predominio economico occidentale.
Sarà l'Occidente capace di far fronte a questo problema?
Le prospettive sono al momento del tutto imprevedibili. Mentre il cambiamento climatico non è in alcun modo interrotto né contrastato, la crisi finanziaria esplosa nel settembre 2008 continua a fare il suo lavoro di talpa, nei sotterranei della società mondiale.
Pur rivelando il fallimento delle politiche neoliberiste, la crisi non ha affatto aperto la strada a un cambiamento di direzione. Al contrario, è stata usata dalla classe finanziaria per mettere a segno due perversi obiettivi.
Il primo è uno spostamento immenso di risorse dalla maggioranza della popolazione verso l'elite finanziaria, un indebitamento della società a favore delle banche di investimento.
Il secondo è la riduzione del salario tramite licenziamenti e dismissioni, l'aumento della produttività, l'estensione dell'area del lavoro precario.
E' difficile vedere al momento quali forze soggettive saranno in grado di elaborare politicamente questo problema, ma la questione è ormai chiaramente delineata: se la tendenza imposta dal capitalismo non si rovescia, il prezzo che pagherà l'umanità intera sarà quella dell'impoverimento progressivo e quella della catastrofe ambientale.

Per elaborare questi punti e per creare un nuovo ambiente di riflessione collettiva:
Alex Foti parlerà del summit di Copenhagen,
Christian Marazzi parlerà di Finanza bruciata,
Marco Trotta parlerà di un bilancio del movimento di Seattle,
Luciano Ummarino parlerà di LOOP venti anni dopo il crollo del muro di Berlino,
Federico Montanari parlerà del lavoro precario cognitivo,
Alessandro Mezzadra parlerà della questione migrante.
Sono previsti anche interventi di Franco Berardi Bifo ed altri.
Coordina Valerio Monteventi

MATERIALI PROPEDEUTICI ALL’INCONTRO

la crisi fa stringere la cinghia VENTI TESI CONTRO L’ECO-CAPITALISMO
di: Tadzio Mueller and Alexis Passadakis
(Alexis Passadakis è membro del consiglio di coordinamento di ATTAC Germania, Tadzio Mueller fa parte del gruppo redazionale di Turbulence. Entrambi sono attivi nell’emergente movimento di climate justice againstgreencapitalism (at) googlemail.com)

1. L’attuale crisi economica mondiale segna la fine della fase neoliberista del capitalismo. Business as usual (finanziarizzazione, deregulation privatizzazione) non è più una scelta possibile: i governi e le corporation dovranno trovare nuovi spazi di accumulazione e nuovi tipo di regolazione politica per far sopravvivere il capitalismo.
2 Insieme alla crisi economica politica ed energetica c’è un’altra crisi che sta attraversando il mondo: la biocrisi, risultato della contraddizione tra sistema di sostegno all’ecologia che garantisce la sopravvivenza umana e bisogno capitalista di una crescita costante.
3. Questa biocrisi è un pericolo immenso per la sopravvivenza collettiva, ma come ogni crisi presenta anche un’opportunità storica per i movimenti sociali: l’opportunità di colpire la vena giugulare del capitalismo, il suo bisogno di una crescita incessante distruttiva e folle.
4. L’unica proposta emergente dalle elites globali che promette di rispondere a queste crisi è il “Green New Deal”. Non l’amichevole capitalismo verde 1.0 dell’agricoltura dinamica e dei mulini a vento, ma la proposta di una fase verde del capitalismo che cerca di generare profitti da una modernizzazione ecologica di certe aree chiave della produzione: auto, energia eccetera.
5: Il capitalismo verde 2.0 non può risolvere la biocrisi (cambiamento climatico e altri problemi ecologici come quelli della pericolosa riduzione di biodiversità) ma piuttosto cerca di trarne profitto. Pertanto esso non modifica la rotta di collisione di umanità e biosfera provocata dall’economia di mercato.
6. Non siamo negli anni 30. Allora, sotto la pressione di potenti movimenti sociali il vecchio New Deal redistribuì potere e ricchezza verso il basso. Il Nuovo e verde New Deal proposto da Obama, e dai partiti verdi di tutto il mondo, e anche da alcune multinazionali pensa molto più all’interesse delle corporation che a quello della gente.
7. Il capitalismo verde non colpisce il potere di coloro che attualmente producono la maggior parte dei gas serra, compagnie energetiche, linee aeree, produttori di auto, e agricoltura industriale, ma farà piovere capitali su tutti costoro per aiutarli a mantenere il tasso di profitto producendo piccoli cambiamenti ecologici che saranno troppo poco e troppo tardi.
8. Dato che globalmente I lavoratori hanno perduto il loro potere di acquisto e di ottenere diritti e salari decenti, nella prospettiva del capitalismo verde i salari continueranno a stagnare o anche declinare per affrontare I costi crescenti della modernizzazione ecologica.
9. Lo stato eco-capitalista sarà uno stato autoritario. Giustificato dalla minaccia di una crisi ecologica vorrà gestire il conflitto sociale destinato a sorgere necessariamente a causa dell’impoverimento che deriva all’aumento del costo della vita e il declino dei salari.
10 Nell’eco capitalismo i poveri dovranno essere esclusi dal consumo, spinti ai margini, mentre I ricchi manterranno il loro comportamento eco-distruttivo, cercando di consumare molto e salvare il pianeta al tempo stesso.
11. Uno stato autoritario, diseguaglianze sociali massicce, la spesa pubblica destinata alle corporation: dal punto di vista dell’emancipazione sociale e ecologica, l’eco-capitalismo sarà un disastro dal quale non ci riprenderemo. Oggi abbiamo una possibilità di superare la follia suicidaria della crescita costante. Quando saremo stati sottomessi al nuovo eco-regime quella possibilità potrebbe essere perduta.
12. Nell’eco-capitalismo c’è il pericolo che gruppi ambientalisti di potere giochino il ruolo che i sindacati svolsero nell’epoca fordista: agire come valvole di controllo per garantire che la domanda di cambiamento sociale proveniente dalla rabbia collettiva rimanesse entro i limiti stabiliti dal capitale.
13 Albert Einstein definisce la follia con queste parole: “ripetere molte volte di seguito la stessa azione aspettandosi che possa produrre dei risultati differenti.” Nel passato decennio, nonostante Kyoto, non solo la concentrazione di gas-serra nell’atmosfera è aumentata, ma è anche aumentato di tasso di incremento. Vogliamo semplicemente ripetere la stessa cosa? Non sarebbe questo folle?
14. “Gli accordi internazionali sul clima promuovono false soluzioni che spesso riguardano piuttosto la sicurezza energetica che il cambiamento climatico. Lungi dal risolvere la crisi, accordi come quello relativo allo scambio di crediti in cambio di emissioni, funzionano come copertura per una continuazione impunita delle emissioni.
15. Per molte comunità del Sud globale, queste false soluzioni sono ormai una minaccia peggiore dello stesso cambiamento climatico.
16. vere soluzioni per il cambiamento climatico non verranno fuori dai governi o dalle multinazionali. Potranno emergere solo dal basso, da movimenti sociali collegati globalmente.
17. Queste soluzioni sono fra l’altro: limitazioni agli scambi commerciali, blocco delle privatizzazioni, e dei meccanismi flessibili. Sì alla sovranità alimentare, sì alla decrescita, sì alla democrazia radicale che lascia le risorse nel terreno.
18. In quanto movimento emergente del cambio climatico dobbiamo combattere contro due nemici: da una parte il cambio climatico e il capitalismo fossile che lo produce, dall’altro un emergente capitalismo verde che non fermerà il mutamento climatico, ma che limiterà la nostra capacità di andare in quella direzione.
19. Naturalmente il mutamento climatico e la libertà di mercato non sono la stessa cosa, ma il protocollo Copenhagen sarà un’istanza di regolazione centrale del capitalismo verde come il WTO era l’organismo centrale del capitalismo neoliberale. Il gruppo danese Klimax sostiene: un buon accordo è meglio che nessun accordo, ma nessun accordo è meglio che un accordo cattivo.
20. La possibilità che I governi escano con un buon accordo a Copenhagen è prossima allo zero. Il nostro scopo è ottenere accordi su soluzioni reali. Altrimenti dovremo dimenticare Kyoto e chiudere Copenhagen. (quale che sia la tattica)

IL DEBITO L'AMBIENTE NOPENHAGEN
Di Franco Berardi Bifo
“Copenhagen, che era stata etichettata Hopenhagen ha finito piuttosto per assomigliare a Nopenhagen”. Scrive Amy Goodman commentando il fallimento del vertice sul clima. Dieci anni dopo la rivolta di Seattle, mentre il sistema politico mondiale sembra incapace di prendere l’iniziativa per il governo dell’ambiente globale e il movimento cerca una via d’uscita dal disastro che decenni di neoliberismo hanno preparato, è sempre più probabile la prospettiva di un crollo dei fondamenti stessi della civiltà moderna per motivi ambientali e sociali. Ciononostante la classe dirigente riafferma la strategia fondata sui dogmi della competizione del profitto e della crescita, che ha prodotto la situazione presente.

“C’è una crisi di fiducia nel futuro, che ci lascia la prospettiva di un infinito deterioramento per inerzia. A dispetto di tutto questo tumulto in cui sembra che tutto debba e possa cambiare, invece la storia paradossalmente sembra essersi fermata. C’è una mancanza di volontà o una incapacità di far fronte alla dimensione della crisi. Gli individui, le aziende, i governi sembrano aspettare fin quando riusciranno che il vecchio mondo torni alla sua normalità. Somme astronomiche di danaro sono state investite per prevenire il mutamento, non per avviarlo. Siamo intrappolati in una specie di limbo.” (Turbulence, 5, Life in Limbo)

“Nel suo periodo trionfale il neoliberismo aveva bandito ogni altra forma di pensiero perché si presentava come una applicazione non ideologica, ma semplicemente razionale della scienza economica. Oggi è possibile vedere e dire che i presupposti di quelle decisioni erano naturalmente ideologiche. Il mercato non tende naturalmente verso l’equilibrio, le premesse di quegli argomenti che pretendevano di essere non ideologici come la trasformazione del mercato in un dato naturale governato da leggi scientifiche sono crollate. L’ideologia neoliberista non potrà più modellare lo spazio della politica, definendo quel che è buono e quel che è cattivo. L’ortodossia neoliberista non è più il dato comune della politica a cui tutte le opinioni debbono subordinarsi.” (Turbulence, ibi).

Le basi ideologiche del neoliberismo sono state scosse dalla crisi finanziaria e dalla coscienza ecologica suscitata dal mutamento climatico. Eppure i dogmi del fanatismo economico continuano ad imporsi. Newsweek ha intitolato il suo numero di dicembre: Is that all? per dire che le premesse di profondo cambiamento seguite al collasso finanziario sono state dimenticate. La vecchia borghesia industriale era capace di conciliare gli interessi dell’impresa con il progresso civile della società. Era una classe territorializzata la cui ricchezza dipendeva da beni fisici e da infrastrutture comuni. La classe finanziaria de territorializzata non ha alcun interesse alla sopravvivenza sociale futura. Il mercato del lavoro è stato globalizzato, e questo ha portato alla distruzione della forza contrattuale dei lavoratori, e il salario globale sta crollando dappertutto. La civilizzazione sociale fondata sulla forza dei lavoratori è stata erosa dalla deregulation neoliberista e adesso mostra segni di collasso definitivo.

In questo contesto è caduta COP15. Il tema centrale del summit non è stato in realtà l’ambiente, ma il debito che l’imperialismo occidentale ha contratto nei confronti del pianeta e dell’umanità. Il debito della colonizzazione del genocidio, e dello sfruttamento sistematico e della devastazione ambientale. Per la popolazione occidentale oggi la cosa più urgente è salvare la vivibilità dell’ambiente, ed evitare il collasso delle condizioni fisiche della civiltà. Peri poveri del sud globale, e anche per i poveri delle metropoli del nord la prospettiva è diversa, dato che non hanno ricevuto gli stessi vantaggi dalla civiltà moderna.

Dopo il collasso finanziario le nazioni occidentali non sono più in grado di imporre il loro programma ai paesi di nuova industrializzazione e ai poveri. Perciò le nazioni povere chiedono riparazioni. L’Occidente sente l’urgenza del mutamento climatico ed è divenuto cosciente dei pericolosi effetti dell’inquinamento in generale. Ma l’Occidente ha creato il problema, e ha fondato la sua ricchezza sulla devastazione dell’ambiente comune. I poveri non temono l’inferno climatico come lo teme la popolazione ricca dell’occidente, per la semplice ragione che all’inferno ci vivono già. Perciò quel che viene fuori dal summit di Copenhagen è uno scenario preoccupante: il Sud globale usa il cambiamento climatico come un’arma contro il Nord globale. Se non volete annegare dovete pagare il debito accumulato negli ultimi cinque secoli. Sarà l’occidente capace di accettare la sfida, oppure il confronto porterà a nuove crisi dell’equilibrio geopolitico e a nuove guerre?

Evo Morales ha detto:
“Per pagare il loro debito i paesi industriali debbono ridurre le loro emissioni e assorbire i loro gas serra in modo tale che si crei una giusta distribuzione dello spazio atmosferico, perché i paesi che si stanno sviluppando hanno bisogno di spazio atmosferico per il loro sviluppo. Una componente del debito climatico sono le riparazioni per i danni che sono stati provocati dall’irrazionalità dei paesi industrializzati. Per l’umanità nel suo insieme è vergognoso che i paesi occidentali abbiano offerto solo dieci miliardi per il cambiamento climatico. Ho dato un’occhiata ad alcune cifre. Quanto spendono gli USA per esportare il terrorismo in Afghanistan e in Iraq, e per mettere basi militari in Sud America? Non spendono milioni ma miliardi e triliardi.”

Il concetto di debito implica una scommessa sul futuro: il debito è la cessione di una parte del nostro futuro in cambio di qualcosa che consumiamo adesso. Anche il concetto di colpa implica l’idea che prendiamo qualcosa per cui dovremo espiare in futuro, magari dopo la morte. In Aramaico, la lingua di gesù, debito e colpa sono la stessa parola. L’espiazione è il futuro che aspetta il peccatore. Se sei capace di espirare la tua colpa in questa vita allora sarai fra gli eletti, ma se perseveri nella tua colpa pagherai con la punizione eterna. Nel mondo giudeo-cristiano il debito e la colpa sono simili, per cui ci si può aspettare che se prendi qualcosa oggi lo restituirai domani, se non vuoi morire in peccato mortale. Una volta che è stato stabilito i,l principio di restituzione nella sfera economica, il credito diventa possibile come sistema di prestito sul futuro. La dinamica dell’accumulazione capitalista è basata su questo processo continuo di investimento del futuro preso in prestito, e la stessa idea di futuro diventa una dimensione culturale comune quando il capitalismo garantisce una relazione tra prestito e restituzione. Ma che succede se vien meno la promessa di restituzione, se quelli che partecipano al gioco del debito e della restituzione perdono la fede nel futuro? Se quelli che prendono in prestito sanno che tanto il mondo finirà presto, o semplicemente se ne fregano del futuro altrui, allora che succede?
Nel suo libro “La trasparence du mal” nel 1999 Baudrillard parlava di orbitalizzazione del debito. A un certo punto della storia del capitalismo scrive Baudrillard, il debito ha cominciato a crescere in modo vertiginoso, così che è diventata puramente virtuale, e ha abbandonato la sfera della relazione terrestre, come un satellite in orbita sulla terra. Circolando da una banca all’altra, da un paese all’altro il debito è decollato e ha cominciato a girare intorno alla terra come i detriti atomici e molte altre cose. Baudrillard conclude che se questi miliardi e trilioni dovessero ricadere sulla terra questa sarebbe una catastrofe.
Quel che è accaduto nel settembre 2008 è esattamente quel che Baudrillard escludeva come un evento impossibile. Trilioni di dollari che galleggiavano in orbita sono caduti giù sulla terra e la finanza virtuale ha provocato il collasso dell’economia, e adesso sembra che provichino anche il collasso dell’ambiente globale. Lo stesso Baudrillard, del resto, negli ultimi anni della sua vita, aveva cominciato apensare possibile un ritorno dalla sfera del virtuale alla sfera materiale. Il debito ha reso possibile un aumento costante del consumo da parte della bulimica popolazione occidentale. Ma il pianeta fisico è adesso assediato dal calore, dall’inquinamento dalla siccità e dall’acqua alta. Se il debito è inesigibile se l’occidente è incapace di ripagarlo, pernso che un’epoca di violenza e di miseria sia destinata a seguire.
E la sola maniera per ripagare il debito è abbandonare l’idea che il futuro sia dominato dalla crescita.

TURBOLANCE
In preparazione della giornata di studi che si terrà a VAG il 9 gennaio 2010, consigliamo anche di visitare il sito della rivista TURBULENCE, che purtroppo è scritta in inglese e non è tradotta.
http://turbulence.org.uk/wp-content/uploads/2009/11/turbulence_05.pdf

Turbulence è una rivista che da alcuni anni esce in occasione dei summit globali, e che ha accompagnato fin dal vertica di Heiligendamm la formazione di un pensiero e di un sentimento del movimento globale.
Il numero 5 che esce adesso ha come oggetto Copenaghen, le problematiche ambientali, ma più generalmente una interrogazione radicale sul carattere dei processi di devastazione prodotti dal neoliberismo, che dopo il collasso finanziario è diventato uno zombie, ma non per questo ha smesso di agire, anzi agisce in modo sempre più cieco ed apparentemente inarrestabile.
In questo numero ci si chiede anzitutto: in cosa ci siamo sbagliati dieci anni fa? cioè cosa ha sbagiato il movimento di Seattle? La risposta non è certo univoca e semplice. Il punto è soprattutto, dice Rodrigo Nunes, autore dell'articolo, che non sappiamo esattamente chi sia quel "noi" che avrebbe sbagliato. Il movimento nato a Seattle non ha infatti acquisito una dimensione sociale concreta non si è identificato in una forza sociale, ma è rimasto una nebulosa ideologica ed etica. Ha vuta una enorme forza sul piano della comunicazione e della critica, ma non ha messo in moto un processo di trasformazione sociale.
Ad esempio, pur occupandosi molto del supersfruttamento nei paesi del sud del mondo, il movimento non ha saputo aggredire la bolla dell'iperlavoro, non ha saputo mettere in moto un processo di redistribuzione del reddito, di appropriazione, di riduzione del tempo di lavoro.
In "Falling together", Rebecca Solnit sviluppa un discorso interessantissimo sugli effetti che le catastrofi possono produrre nella spontaneità sociale. In questo saggio, che è tratto dal suo libro "A Paradise Built in Hell", Rebecca Solnit propone un'alternativa all'idea dominante secondo cui i disastri provocano una specie di guerra di tutti contro tutti, e soluzioni aggressive e autoritarie. Al contrario, dice rebecca Solnit, le catastrofi possono aprire spazi di comunità di altruismo e di solidarietà. E soprattutto, vorrei aggiungere, di immaginazione. I disastri infatti aprono una finestra di desiderio sociale e di possibilità.
In "Notes on Obama's energy plan" George Caffentzis dà un segno della delusione che si sta diffondendo intorno alle scelte e soprattutto alle non scelte del nuovo presidente americano. Contrariamente alle promesse ed alle attese, infatti, Obama non ha la volontà o forse non ha la forza per liberarsi del modello economico basato sul petrolio, e di conseguenza non ha la forza per liberarsi di una politica di guerra.
"Non sembra possibile per il governo americano ritirarsi dal suo ruolo senza mettere in discussione il progetto capitalista stesso. Come dimostrano le politiche in Afghanistan Iraq e Pakistan, Obama e la sua amministrazione non mostrano interesse a liberarsi dal ruolo imperialista. "
Collectivo situaciones propone una riflessione sul tema dell'impasse (vicolocieco)
"Parliamo di impasse per definire la attuale situazione politica. E' una immagine elusiva, ma presente nelle diverse situazioni che stiamo sperimentando. Un tempo sospeso nel quale ogni atto è tentennante."
Come definire meglio l'atmosfera in cui si è svolto il vertice di Copenaghen?
Al centro della riflessione ci sta naturalmente una considerazione su quello che è il decorso della crisi finanziaria, e sulle misure che sono state prese finora dai governi.
Nell'editoriale (Life in Limbo?) troviamo infatti queste parole:
"Somme astronomiche sono state spese per prevenire il collasso completo del sistema finanziario, ma gli interventi sono stati usati per prevenire il cambio, non per avviarlo. Siamo intrappolati in uno stato di limbo."

©opyright :: Vag61
Tutti i materiali presenti sul sito sono distribuiti sotto Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0.
All content is under Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 . Powered by Phpeace